La persona umana ha quattro dimensioni: biologica, psicologica, razionale e spirituale, “pneῦma, yucὴ, sῶma,” secondo san Paolo. Lo specifico femminile si ritrova nella combinazione tra la differenza biologica, le sue conseguenze storiche nella formazione della società, la diversa psicologia che l’una e le altre hanno indotto come forme permanenti della sensibilità e orientamenti culturali trasmessi nei secoli. Nessuna differenza è riconoscibile nella capacità logico-razionale, nella dimensione trascendentale della coscienza e quindi nella capacità d’assumere ruoli diversi da quelli legati alla riproduzione e all’educazione dei figli. Meno che mai una differenza è pensabile nell’ambito spirituale, dell’autointuizione della persona e della sua libertà rispetto a Dio e all’orientamento di vita. L’io non è sessuato, ma soggetto che si conosce e possiede prima d’ogni qualificazione fisica, psicologica, sociale, culturale. Il femminismo ha la sua forza nelle molte osservazioni vere sulla dipendenza della situazione della donna da tradizioni culturali e sociali o dalla formazione pregressa di schemi mentali non giustificati dalla natura. Quel che attiene alle capacità razionali, di intendere e di volere e a quelle
di abnegazione e di direzione della vita non differenzia uomo e donna e non si vede perché ciò che è legato a queste qualità debba essere diverso nella dimensione sociale. Tuttavia nella tradizione del femminismo abita il pericolo rilevante della dipendenza da una comprensione antropologica mutila, che elude la dimensione spirituale e assume una percezione della persona radicata in quella psicologica: trovo in me desideri, ambizioni, abilità, opero scelte che faccio mie, e tutto questo definisce la mia realtà: sono una monade, nella quale il mondo esterno entra attraverso la percezione sentimentale che ne ho e si misura sulla mia realtà individuale, chiusa in sé stessa. Viene messo tra parentesi il carattere relazionale della persona, presente sia nella dimensione dell’io trascendentale, sia, fondamentalmente, in quella dell’io nell’atto della sua esistenza: l’unità individuale è l’unità empirica individuale e le sue relazioni con gli altri sono qualcosa che s’aggiunge. Lo sguardo non va alla realtà ontologica, all’essere che sono, ma a quella psicologica, al come mi percepisco. Sono anche abbandonate le forme antiche del mito, intese a evadere da sé per comprendersi in un mondo di significati più alti. Ad esse si può sostituire il doppio fondo del subconscio della psicanalisi, il cui determinismo è analogo a quello fisico, perché sono i dinamismi inconsci a determinare quelli consapevoli. Il che può anche esser vero largamente, ma non è vero
per l’io nella sua libertà assoluta rispetto al tu di Dio. Il pericolo di una tale percezione psicologista è la riduzione della differenza sessuale a percezione: sono uomo o donna secondo come mi percepisco, la differenza è misurata in una situazione sociale, psicologica, culturale. È negata, non nelle parole, ma nel fatto, la sua radice biologica, è negato che i modi d’essere genitore della mamma e del padre sono essenzialmente diversi, riflettendosi nei rapporti con la realtà tutta, per il portato che la prima esperienza della maternità ha nella definizione della psicologia femminile disponendola alla cura: così come il pensiero passa attraverso un corpo di parole, la realtà spirituale passa attraverso un mondo fisico e un mondo sentimentale legato ad esso. L’ultima parte della conversazione ha affrontato l’aspetto vocazionale della condizione umana, con riferimento al modello di Maria. Nella sua vocazione la dimensione femminile è vissuta nelle due prospettive della vergine e della madre, che si rivelano funzionali l’una all’altra. Se la verginità
fisica è profezia di alcuni, è vocazione di tutti quella spirituale del cuore dato indiviso all’amore di Dio e la maternità ne è coinvolta. Maria rende l’amore materno non semplice figura, ma modo di realizzazione dell’amore divino, nella completa apertura e dedizione a Dio, sia in quanto persona, perché il cuore indiviso non è della donna o dell’uomo, ma della persona, sia in quanto donna, perché vive la disponibilità a Dio offrendo la sua maternità. Il mettere a disposizione la maternità, non tenerla per sé, e la capacità d’amare con cuore indiviso, costituiscono insieme la femminilità come vocazione.

Angelo Castellucci